Posto che la condotta costitutiva dell’abusivo esercizio della professione consiste nel compimento di uno o più atti riservati alla attività medica, e che tale professione si può estrinsecare anche nell’utilizzo di tecniche e macchinari particolarmente invasivi finalizzati all’eliminazione di inestetismi, commette il reato di esercizio abusivo della professione medica anche colui che esprima giudizi diagnostici, fornisca consigli ed appresti rimedi volti ad eliminare inestetismi estetici, ogni qualvolta a tal fine sia necessario procedere mediante tecniche chirurgiche o con procedure altrimenti non consentite se non al medico in ragione della loro invasività o rischiosità.

Oggi vi segnalo un’interessante sentenza della Cassazione Penale (Sez. IV, n. 28174 del 23.6.2021) in tema di esercizio abusivo della professione di dermatologo.

Rimozione di tatuaggio con luce pulsata

Il caso

Una signora si rivolge ad un centro estetico per far rimuovere un tatuaggio dal braccio; presso il centro opera un professionista esterno, chiamato “Dottor Svizzera”, che si reca periodicamente presso il centro con la propria attrezzatura per effettuare rimozione di tatuaggi con la tecnica della luce pulsata. Il professionista si presenta dunque alla cliente qualificandosi come dermatologo e procede all’intervento, all’esito del quale la signora riporta una ferita ulcerosa in corrispondenza della zona trattata. La cliente presenta denuncia-querela.

Il Tribunale e la Corte d’Appello giudicano l’imputato colpevole del reato di esercizio abusivo della professione medica (il concorrente reato di lesioni colpose è stato dichiarato improcedibile a seguito della rimessione della querela) e lo condannano prima a 6 e poi a 4 mesi di reclusione.

Vediamo qual è l’esito del ricorso avanti alla Corte di Cassazione.

Il motivo principale di impugnazione

Il ricorrente contesta innanzitutto che la Corte d’Appello abbia desunto la necessità di un titolo accademico abilitativo al fine della rimozione di tatuaggi dal verbale di sommarie informazioni rese dal consulente tecnico d’ufficio, laddove in realtà non esisterebbe alcuna norma che richiederebbe l’abilitazione a medico a tale scopo.

In tema di esercizio abusivo della professione, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è ferma nel ritenere che:

  • il bene tutelato dall’art. 348 Cod. Pen. sia rappresentato dall’interesse generale a che determinate professioni vengano esercitate soltanto da soggetti in possesso di una speciale autorizzazione amministrativa
  • l’art. 348 Cod. Pen. sia una norma penale in bianco, che presuppone l’esistenza di norme giuridiche diverse, qualificanti una determinata attività professionale, le quali prescrivono una speciale abilitazione dello Stato ed impongono l’iscrizione in uno specifico albo, in tal modo configurando le cosiddette «professioni protette».

Con particolare riguardo all’attività medica, sono state ritenute attività caratterizzanti la professione:

  • la diagnosi, cioè l’individuazione di un’alterazione organica o di un disturbo funzionale
  • la profilassi, ossia la prevenzione della malattia, e
  • la cura, cioè l’indicazione dei rimedi diretti ad eliminare le patologie riscontrate ovvero a ridurne gli effetti.

Sono state, conseguentemente, ritenute non rientrare in tali definizioni la misurazione della vista e la predisposizione di lenti correttive nei casi di miopia e di presbiopia, senza valutazioni di carattere diagnostico o terapeutico, la depilazione con gli aghi, la misurazione della pressione arteriosa non seguita da giudizio diagnostico, lo svolgimento dell’attività di massaggiatore a scopo non terapeutico e la realizzazione di tatuaggi.

Le caratteristiche qualificanti l’attività medico-estetica

Va poi considerato che nell’attività medica si devono includere anche quelle operazioni che non hanno come obiettivo primario la diagnosi e la cura di una patologia, ma che mirano all’eliminazione di un mero inestetismo estetico, eventualmente per il tramite di tecniche chirurgiche o da eseguirsi in anestesia e necessariamente previo consenso informato del paziente. Occorre dunque valutare se l’attività di rimozione di un tatuaggio sia in esse ricompresa, alla luce del principio secondo il quale

“ai fini della configurabilità del reato di abusivo esercizio della professione medico-chirurgica, non assume alcun rilievo il carattere non convenzionale e sperimentale del tipo di trattamento terapeutico praticato, se questo presenti caratteristiche di invasività e incidenza sull’organismo del paziente i cui effetti possono essere valutati solo da professionisti muniti di apposita abilitazione.” 

Quali le differenze legali tra l’attività tatuatoria e quella di rimozione dei tatuaggi?

Il giudizio di responsabilità nel caso concreto è stato fondato sulla distinzione tra l’attività di realizzazione e l’operazione di rimozione di un tatuaggio.

Per la rimozione di un tatuaggio, chiarisce la Corte, è infatti necessario ricorrere all’intervento di un medico, al quale è demandata la scelta della tecnica da seguire per raggiungere l’obiettivo; una delle tecniche idonee è, secondo quanto si legge nella sentenza, quella del laser, mentre non è corretto l’utilizzo della tecnica della luce pulsata, alla quale ha fatto ricorso l’imputato.

L’attività di tatuaggio si sostanzia nella inoculazione di pigmenti con microaghi nel derma: il tatuaggio è visibile attraverso lo strato più superficiale della pelle che è l’epidermide, ma il pigmento colorato risiede nel derma, che è il secondo strato della cute e che ha cellule più stabili dell’epidermide e, per tale proprietà, mantiene nel tempo la colorazione inoculata.

Se ne desume che, per rimuovere un tatuaggio non sia, dunque, sufficiente operare a livello dell’epidermide, essendo necessario incidere il dermamediante escissione del tratto tatuato, ovvero comunque raggiungerne gli strati profondi, ove si preferisca evitare l’esito cicatriziale, mediante le più moderne tecniche del Laser Q-Switched e dei Pico Laser. Secondo la Corte, si tratta in entrambi i casi di atti tipicamente medici in ragione dell’invasività organica del mezzo da utilizzare, vuoi per i suoi effetti dolorifici, vuoi per gli elevati margini di rischio, tanto da dover essere praticato con intervento anestesiologico e previo espresso consenso informato del singolo paziente.

“Posto che la condotta costitutiva dell’abusivo esercizio deve consistere nel compimento di uno o più atti riservati alla attività medica, e che tale professione si può estrinsecare oltre che nella capacità di individuare e diagnosticare le malattie, nel prescriverne la cura, nel somministrare i rimedi, anche nell’utilizzo di tecniche e macchinari particolarmente invasivi finalizzati all’eliminazione di inestetismi, commette il reato di esercizio abusivo della professione medica anche colui che esprima giudizi diagnostici, fornisca consigli ed appresti rimedi volti ad eliminare inestetismi, ogni qualvolta a tal fine sia necessario procedere mediante tecniche chirurgiche o con procedure altrimenti non consentite se non al medico in ragione della loro invasività o rischiosità.” 

La conclusione nel caso concreto

Nel caso in esame, il reato commesso dall’imputato si è sostanziato

  • nel presentarsi alla cliente come dermatologo, e
  • nell’aver consigliato ed utilizzato la c.d. luce pulsata, ovverosia nell’uso di un apparecchio elettromeccanico (inserito nell’elenco di cui all’Allegato alla legge 4 gennaio 1990, n.1 – Disciplina dell’attività di estetista) che, a norma del D.M. n.110/2011, può essere impiegato nell’attività di estetista, ma a fini diversi da quelli della rimozione di tatuaggi.

Per quanto, dunque, il caso si caratterizzi per l’uso di una tecnica non riservata agli esercenti la professione medica, ed anzi espressamente consentita presso i centri estetici, secondo la Cassazione l’elemento determinante è costituito dal fatto di

avere l’imputato compiuto senza titolo atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, sono univocamente individuati come di competenza specifica di essa, e per aver fatto ciò con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato”,

qualificandosi come medico ed assumendo l’obbligazione di eseguire la rimozione di un tatuaggio, e dunque di realizzare un obiettivo che tipicamente compete a medici specialisti in dermatologia o in chirurgia plastica.

Le conclusioni della Corte d’Appello sul punto sono state dunque confermate dalla Corte di Cassazione.

Avv. Elena Bassan

 

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Avv. Elena Bassan