Il medico, una volta coinvolto nel caso di un paziente a seguito di un consulto, ha l’obbligo – connaturato con la professione medica – di attivarsi a tutela della salute e della vita del paziente proponendo opzioni terapeutiche scientificamente affidabili; in mancanza, la sua condotta professionale va incontrovertibilmente considerata come caratterizzata da grave imprudenza ed imperizia

Oggi vi segnalo un’interessante sentenza della Cassazione Penale (n. 5117 del 14 febbraio 2022) sul tema dell’inquadramento come concorso nel reato di omicidio colposo dell’avallo dato all’utilizzo di terapie alternative per la cura di tumori.

Il caso

Nel 2005, a fronte della diagnosi di un nevo discromico e plemorfo in regione scapolare sinistra“, una paziente viene consigliata dal medico di fiducia di non sottoporsi ad un intervento di relativa asportazione; invece, le viene indicata una terapia alternativa, ricavata dalla c.d. nuova medicina germanica di Hamer – priva di qualsiasi riconoscimento scientifico – e gli stessi suggerimenti le vengono reiterati negli anni successivi, anche dopo l’asportazione del suddetto nevo (avvenuta nel 2014, contro il parere del medico curante) e la formulazione della diagnosi di melanoma maligno a cellule epitelimorfe.

Un altro medico, mentore e collega di studio della prima, sostiene le sue teorie e a sua volta, coinvolta nel caso, consiglia la paziente di non sottoporsi ad interventi e terapie tradizionali (tra cui l’asportazione chirurgica del nevo e dei linfonodi). La paziente decederà a causa delle multiple metastasi sviluppate dal melanoma.

Entrambe i medici vengono indagati per il suddetto decesso; il secondo medico, in particolare, viene poi condannato alla pena di tre anni di reclusione per cooperazione nell’omicidio colposo della paziente ex artt. 113 e 589 c.p. per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonchè in violazione delle elementari regole di comportamento riconosciute dalla comunità scientifica con laggravante di aver commesso il fatto nonostante la previsione dell’evento”, pronuncia confermata in sede d’appello.

Vediamo qual è l’esito del giudizio della Corte di Cassazione.

 

Anche la mentore/collega di studio ha una posizione di garanzia nei confronti del paziente?

Il primo motivo di impugnazione involge la posizione assunta dal secondo medico nei confronti della paziente.

Era infatti risultato pacifico, sulla base delle risultanze dei due gradi di giudizio di medico, che il primo era stato l’unico medico curante della paziente, di cui aveva seguito l’intero percorso terapeutico suggerendole il ricorso alla medicina omeopatica HahnemannianaNessuna relazione terapeutica sarebbe invece intercorsa tra la vittima ed il secondo medico la quale, “solo episodicamente ed in maniera del tutto estemporanea” (quanto meno, a detta della sua difesa) aveva offerto il proprio consulto per esaminare lo stato di salute del neo. Per libera scelta della paziente, quindi, non era sorto alcun rapporto terapeutico né, di conseguenza, poteva ritenersi sussistente tra le due dottoresse una “comune consapevolezza di cooperare e far convergere le proprie condotte mediche al fine di curare” la paziente. Nessuna posizione di garanzia era stata, in sostanza, assunta dal secondo medico, anche considerata la carenza di una fonte normativa che le imponesse l’obbligo giuridico di attivarsi per impedire l’evento. Detto medico non aveva dunque – secondo la sua difesa – alcun dovere specifico nei confronti della paziente.

 

… o l’assunzione formale di una posizione di garanzia è tutto considerato irrilevante?

Secondo la Cassazione, la circostanza che il secondo medico non avesse avuto alcun rapporto terapeutico con la paziente e che non avesse ricoperto alcuna specifica posizione di garanzia nei suoi confronti, va ritenuta del tutto irrilevante al fine della decisione del caso.

Vanno invece valorizzati:

° il forte ascendente avuto dal secondo medico nei confronti sia della paziente, sia del primo medico, nonché

° le condotte direttamente imputabili al secondo medico, “le quali certamente – almeno a far data dal 2012 – hanno contribuito a definire il percorso terapeutico, avallando le nefaste scelte della () pur nella consapevolezza della loro contrarietà alla medicina tradizionale e dei pericolosi rischi connessi alla grave situazione di salute in cui versava la” paziente.

Come, infatti, correttamente argomentato dalla Corte d’Appello, “la condotta (del secondo medico) che fu chiamata nel maggio 2012 a valutare la situazione di rischio in cui la (paziente) si trovava, percependone immediatamente la gravità, fu di piena adesione al fallimentare piano terapeutico elaborato dalla (), al consiglio di rimandare l’intervento fino a che il tumore non fosse uscito naturalmente dal corpo della paziente, adesione che è connotata da una manifesta attitudine agevolatrice della dissennata condotta dell’allieva“.

La Corte ha quindi giudicato corretta la considerazione secondo cui era da ritenersi pacifico che la titolare della posizione di garanzia nei confronti della paziente fosse solo il primo medico; cionondimeno, era

“un dato altrettanto incontroverso che (il secondo medico) non si sia attivata, una volta coinvolta dal primo consulto… venendo così meno all’obbligo connaturato con la professione medica di attivarsi a tutela della salute e della vita del paziente, tenendo una condotta professionale caratterizzata da grave imprudenza ed imperizia”.

Il motivo di impugnazione è stato dunque giudicato privo di fondamento e rigettato.

 

Ma sussiste un effettivo nesso di causalità tra la condotta passiva del secondo medico ed il decesso della paziente?

La difesa del secondo medico solleva, in secondo luogo, l’argomento dell’insussistenza del nesso di causalità tra la condotta del medico stesso ed il decesso della paziente, posto che un rapporto causa-effetto avrebbe dovuto essere identificato solo nelle violazioni del dovere di diligenza ascrivibili al (primo) medico curante.

Secondo la Cassazione anche questo motivo va rigettato.

La responsabilità del secondo medico è stata infatti configurata in forza della cooperazione tra tale sanitario ed il medico curante della paziente – “di cui era stata mentore e con la quale aveva condiviso fin dagli anni ‘90 lo stesso studio professionale e il ricorso alla medicina omeopatica, con rifiuto del trattamento chirurgico delle neoplasie”.

Nel caso di specie, il secondo medico era stato coinvolto nel caso del paziente nel maggio 2012, quando era stata invitata dalla collega ad un consulto, nel corso del quale aveva potuto visionare la lesione della paziente e diagnosticarne la natura degenerativa cancerogena. Pur considerato che in tale momento storico (1) non vi erano segni di metastasi, (2) che la stadiazione del melanoma è intervenuta solo il 26 marzo 2014 e (3) che nel giugno dello stesso anno vi erano solo due linfonodi interessati dal processo metastatico o proliferativo, secondo la Suprema Corte era

“dato certamente non contestabile, infatti, che ove la (…) fosse stata indirizzata subito, quanto meno nel 2012, al ricorso alla medicina tradizionale, quando ancora non si era manifestato un quadro sintomatologico particolarmente allarmante, con altissima probabilità sarebbe stata ben altra, e migliore, la prognosi di sopravvivenza della vittima, oltre che della qualità della sua vita.”

Di conseguenza, secondo la Cassazione è del tutto corretto il ragionamento dei giudici di secondo grado, per i quali sussiste il nesso di causa tra la condotta gravemente negligente e imperita del secondo medico – consistita nel “non essersi attivata per informar(e la paziente), pur avendola vista in più occasioni, della possibilità di ricorrere ad opzioni terapeutiche tradizionali, fondate su base scientifica, in relazione all’evoluzione del melanoma, nonché alle procedure di diagnosi e di cura previste dalle linee guida accettate dalla comunità scientifica, invece di avallare la fallimentare linea terapeutica dettata dalla ()” – ed il decorso ingravescente della grave patologia della paziente, culminato nel suo decesso.

La sentenza – che conclude con il rigetto del ricorso e la condanna del medico alle spese legali – conferma dunque un approccio particolarmente rigoroso nella configurabilità della responsabilità del medico a titolo di cooperazione nel reato colposo a danno di un paziente.

Avv. Elena Bassan

 

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