In caso di utilizzo di un farmaco fuori protocollo, il medico è tenuto a fornire al paziente un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze, con riferimento in particolare al tipo di terapia da effettuarsi e alle relative possibili complicanze, ai fini della libera e consapevole autodeterminazione del medesimo, con assunzione anche di tale rischio ovvero della scelta, una volta reso edotto delle alternative prospettabili, anche di non proseguire il percorso terapeutico suggerito.
Oggi vi segnalo un’interessante ordinanza della Corte di Cassazione (la n. 18283 del 25 giugno 2021) concernente un caso (in ambito oculistico, ma con logica ben applicabile anche a quello dermatologico) di prescrizione off-label – cioè fuori protocollo – di un farmaco. La decisione ci offre l’opportunità di esaminare una disciplina non solo utile, ma estremamente attuale in relazione al delicato tema dell’utilizzo off-label dei farmaci nella cura del Coronavirus.
Il caso
Un signore viene sottoposto da un medico oculista ad una terapia per “uveite acuta bilaterale” al di fuori del protocollo medico e senza monitoraggio né prima, né dopo il periodo di trattamento.
In conseguenza del trattamento il paziente lamenta non solo di avere riportato un danno ai reni, ma anche di non essere stato informato dal medico in merito a tale possibilità.
Il paziente incardina dunque una causa per il risarcimento degli allegati danni nei confronti del medico e dell’Azienda Ospedaliera d’appartenenza.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello rigettano le domande del paziente sulla base della constatazione della mancata sofferenza di danni renali permanenti da parte dello stesso; vediamo qual è l’esito della valutazione della Corte di Cassazione.
Quando un farmaco può essere utilizzato al di fuori del protocollo standard
Uno dei principali motivi di ricorso formulati dal paziente concerne la violazione del suo diritto a ricevere piena informazione in relazione al trattamento farmacologico somministratogli fuori protocollo ed ai suoi effetti collaterali, e di non essere stato dunque posto nella condizione di poter decidere se rifiutare la terapia farmacologica, “ovvero accettare il rischio di una disfunzione visiva in luogo di quella renale”.
Ma cosa si intende per utilizzo off-label del farmaco? E quali sono le condizioni di somministrazione al paziente?
Il riferimento è all’art. 3, comma 2 della Legge 94/1998 (ex “Legge Di Bella”): con il termine “off-label” si intende l’utilizzo di un medicinale (prodotto industrialmente) fuori protocollo, e cioè “per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata”, o per una tipologia di pazienti non indicati nella scheda tecnica e nel foglio illustrativo. Si tratta dunque della prescrizione di un prodotto non autorizzata, nel senso che la tollerabilità, sicurezza ed efficacia non sono sostenuti da dati sufficienti per quel particolare uso.
Il medico può prescrivere ed utilizzare un farmaco fuori protocollo solo qualora ritenga, “in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.”
Verificati questi stringenti presupposti, il medico è tenuto ad attivare la procedura di informazione del paziente, a documentare l’assenza di altri prodotti utili e regolarmente registrati per quella indicazione terapeutica e ad essere nella posizione di poter documentare il razionale clinico, l’appropriatezza e la sicurezza dell’uso del prodotto nel contesto clinico in cui lo vuole utilizzare.
Attenzione: il medico può scegliere, sotto la sua responsabilità, di impiegare il medicinale off-label “in singoli casi”: la legge vuole che la scelta terapeutica del medico non sia una prassi, ma venga circoscritta ad ipotesi specifiche ed individualmente definite, sulla base di criteri dettati dal beneficio che ci si potrebbe presumibilmente attendere per il paziente.
L’inosservanza di queste regole espone il medico a responsabilità di natura sia deontologica, sia civile e – nei casi più gravi – penale.
Il consenso informato del paziente come presupposto essenziale della somministrazione della terapia off-label
Abbiamo visto che uno dei requisiti essenziali per la somministrazione off-label del farmaco è l’acquisizione, da parte del medico, del consenso informato del paziente, e su tale requisito la Suprema Corte si concentra particolarmente nella sentenza in commento, riassumendo in alcune pagine i passaggi salienti dei suoi precedenti degli ultimi anni. Vediamone i principali:
- il consenso libero e informato, che è volto a garantire la libertà di autodeterminazione terapeutica dell’individuo, costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario
- si tratta di obbligo che attiene all’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, al fine di porlo in condizione di consentirvi consapevolmente
L’informazione deve attenere al possibile verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, dei rischi di un esito negativo dell’intervento e di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, ma anche la possibile sostanziale inutilità del trattamento stesso, con tutte le conseguenze di carattere fisico e psicologico (spese, sofferenze patite, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia e alla prospettiva di subire una nuova operazione, ecc.) che ne derivano per il paziente
- in mancanza di consenso informato l’intervento del medico è (al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge è obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità) sicuramente illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente
- l’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente costituisce una “prestazione altra e diversa da quella dell’intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente”; questo significa che, anche se l’intervento medico sia condotto correttamente, il medico stesso potrebbe essere esposto ad azioni legali, qualora il paziente abbia subito un danno conseguente alla sua mancata informazione.
Il consenso informato va acquisito anche qualora la probabilità di verificazione dell’evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo il suo accadimento, poiché la valutazione dei rischi appartiene al solo titolare del diritto esposto e il professionista o la struttura sanitaria non possono omettere di fornirgli tutte le dovute informazioni
- La struttura e il medico vengono meno all’obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente non solo quando omettono del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando acquisiscano con modalità improprie il consenso del paziente
- a fronte della contestazione di inadempimento da parte del paziente, è onere della struttura e del medico provare l’adempimento dell’obbligazione di fornirgli un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze.
L’analisi della Suprema Corte nel caso in commento
Secondo la Cassazione, i suddetti principi sono rimasti disattesi nel caso in commento.
A fronte delle contestazioni del paziente, né il medico né la struttura hanno fornito in giudizio la prova di aver correttamente informato il paziente in merito al tipo di trattamento propostogli ed alle sue caratteristiche ed ai relativi rischi.
“La corte di merito non ha dato invero conto dell’assolvimento da parte del medico odierno controricorrente dell’onere sul medesimo incombente di fornire un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze… con riferimento in particolare al tipo di terapia da effettuarsi e alle relative possibili complicanze, ivi ricompresa quella in effetti verificatasi, ai fini della libera e consapevole autodeterminazione del medesimo in ordine alla relativa accettazione, con assunzione anche di tale rischio ovvero di consapevolmente optare, una volta reso edotto delle alternative prospettabili in ragione del completo quadro della vicenda, anche per «non proseguire il percorso terapeutico suggerito (anche in dosaggi inferiori) e decidere indi di preservare la funzionalità (renale) in luogo di quella visiva”.
La Corte d’Appello, pur dando atto dell’avvenuta sofferenza, da parte del paziente, di danni – anche se transitori – a livello renale, e del fatto che lo stesso non aveva avuto alcuna informazione al riguardo, ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni con una motivazione “intrinsecamente ed irredimibilmente illogica e giuridicamente erronea”.
Per tale motivo la sentenza è stata cassata e rinviata alla Corte d’Appello d’origine, in diversa composizione, per un nuovo giudizio nel merito.
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