La nozione di attività pericolosa non è limitata alle attività tipiche, già qualificate come tali da una norma di legge, ma deve essere estesa a tutte le attività che, per loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati, comportino una rilevante possibilità del verificarsi di un danno.

Sostanze non dichiarate nella crema contro la psoriasi

Oggi vi segnalo una sentenza della Corte d’Appello di Trento, depositata il 17 aprile 2020, in tema di effetti collaterali derivanti da sostanze non dichiarate in prodotti – dichiaratamente cosmetici – per il trattamento della psoriasi e della relativa responsabilità del produttore per svolgimento di attività pericolosa.

Il caso

Un signore, per fronteggiare la sua cronica patologia di psoriasi, acquista in farmacia un prodotto denominato Skin Cap, nelle sue varie formulazioni (shampoo, spray e lozione), qualificato come cosmetico ed indicato per il trattamento di eruzioni cutanee di varia natura, psoriasi inclusa.

L’utilizzo prosegue per alcune settimane, con un miglioramento della patologia; a seguito della brusca interruzione del trattamento, il signore riporta un grave eritema diffuso, con successivi ricoveri e diagnosi di psoriasi eritrodermica.

Il signore viene poi a scoprire che, tra le sostanze rientranti nella composizione del preparato, oltre allo zinco piritone (peraltro dichiarato in etichetta), vi era un corticosteroide non dichiarato, e chiama in causa il distributore del prodotto in Italia per essere risarcito dei danni conseguenti al peggioramento della patologia. Il produttore spagnolo, pur chiamato in manleva dal suo distributore, rimane contumace.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello rigettano la domanda del danneggiato sulla base di una ritenuta assenza di presupposti di legge per il risarcimento. La Cassazione cassa invece l’ultima sentenza, rinviano ad altra Corte d’Appello per una nuova valutazione della questione, sulla base dei principi indicati di seguito. Vediamo qual è l’esito dell’ultima rivalutazione da parte della Corte d’Appello.

Anche l’attività del produttore di cosmetici può essere qualificata come attività pericolosa

Secondo la Corte di Cassazione, le corti di merito hanno errato nel concludere che l’attività oggetto di causa (produzione e distribuzione di prodotti cosmetici) non potesse essere qualificata come attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c..

Tale disposizione addossa all’esercente di una determinata attività – qualora qualificabile, appunto, come pericolosa – la responsabilità per qualsiasi danno che possa derivare dallo svolgimento della stessa, salvo che provi di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Si tratta di una responsabilità di natura oggettiva, che prescinde dalla colpevolezza della condotta dell’esercente e che può essere esclusa solo laddove quest’ultimo offra la cosiddetta “prova liberatoria”, consistente appunto nella prova di aver adottato tutte le misure precauzionali opportune e necessarie ad evitare il danno. Per approfondimenti sul tema, vedi anche il mio precedente post “Effetti indesiderati rari del farmaco: quando l’azienda farmaceutica risponde dei danni?”.

Secondo la Cassazione, la nozione di attività pericolosa non è predeterminata e

“non deve essere limitata alle attività tipiche, già qualificate come tali da una norma di legge, ma deve essere estesa a tutte le attività che, per loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati, comportino una rilevante possibilità del verificarsi di un danno”, ovverosia “che risultino in concreto dotate di spiccata potenzialità offensiva per loro natura o per le modalità concrete di svolgimento”.

Di conseguenza,

“Il requisito della pericolosità non va accertato in astratto ma in concreto, con valutazione che deve esser fatta caso per caso, tenendo presente che anche un’attività per natura non pericolosa può diventarlo in ragione delle modalità con cui viene esercitata o dei mezzi impiegati per espletarla”.

Sulla base di questi principi, le corti di merito sono incorse in una palese contraddizione, da un lato ammettendo la potenzialità nociva del prodotto, determinata dalla sua componente medicinale, e dall’altro lato affermando che la relativa commercializzazione doveva comunque considerarsi attività non pericolosa.

Nel caso di specie, le analisi effettuate dall’Istituto Superiore di Sanità sui prodotti in questione hanno evidenziato la presenza anomala:

  • di zinco piritone, sostanza ammessa solo nelle preparazioni eliminate per risciacquo, presenza che è stata confermata anche in sede di CTU. La presenza di zinco, seppur dichiarata nel prodotto, non era da ritenersi conforme alle prescrizioni ministeriali in due delle tre formulazioni del prodotto (spray e crema);
  • di un corticosteroide (“clobetasolo propionato”), sostanza accertatamente pericolosa, specie in caso di brusca interruzione del trattamento.

Secondo la Corte d’Appello, due sono i rilievi da fare con riferimento a quest’ultima sostanza:

“la mancata indicazione nel foglietto illustrativo, peraltro necessaria in quanto elemento atto a determinare la natura di farmaco e non di semplice cosmetico, e l’insufficienza della raccomandazione, pur presente, di non interrompere il trattamento pur in caso di esiti favorevoli.

Se invero si fosse precisato che la brusca interruzione poteva esser foriera di gravi conseguenze, e non relegandola a mera raccomandazione inserita nel foglietto illustrativo di un cosmetico, diverse avrebbero potuto essere le conseguenze, anche giuridiche, della vicenda”.

Da quanto precede seguono due conseguenze:

  • i prodotti in questione era senz’altro da classificare come farmaci, anziché cosmetici
  • ciò che aveva sofferto il danneggiato in questo caso era la comparsa di eritrodermia, che è uno degli effetti collaterali più frequenti della sospensione improvvisa del trattamento con corticosteroidi.

Non vi è dunque dubbio che la grave reazione cutanea subita dal danneggiato fosse reazione all’utilizzo e subitanea sospensione dello Skin Cap e sul diritto dello stesso al risarcimento dei danni conseguentemente subiti, non avendo il produttore “provato di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno.

L’atteggiamento superficiale del danneggiato riduce però l’entità del risarcimento

Secondo la Corte, tuttavia, anche la condotta superficiale del danneggiato ha concorso, nel caso di specie, ad aggravare il danno:

“un soggetto al quale già da tempo è stata diagnosticata una patologia, e non semplici fenomeni momentanei, per di più ingravescente nel tempo, ed al quale vengono a più riprese prescritte terapie farmacologiche da svolgere anche a domicilio e molto specifiche per il caso concreto, non dovrebbe assolutamente affidarsi alle proprie iniziative, anche fosse solo per alleviare una situazione di disagio provocata dalla malattia (prurito), senza neppure un preventivo parere se non altro del medico di base, affidandosi invece ad un preparato destinato a situazioni non certo patologiche ma solo finalizzato ad “alleviare” pruriti, irritazioni, arrossamenti, forfora”.

A maggior ragione, il danneggiato non avrebbe dovuto disattendere la raccomandazione, riportata nelle istruzioni dei prodotti, di non sospendere subitaneamente il trattamento una volta ristabilito.

La condotta superficiale del danneggiato, secondo i giudici, ha concorso al verificarsi dell’evento dannoso: se il danneggiato – già affetto da una forma piuttosto grave di psoriasi – si fosse rivolto ad un medico per la scelta dei prodotti curativi per la sua psoriasi, o quanto meno si fosse attenuto alle relative raccomandazioni d’uso, verosimilmente non avrebbe riportato i danni per cui ora agiva in causa.

Per tale motivo, l’importo del risarcimento dovuto allo stesso– quantificato nell’importo complessivo di circa 27.000 euro oltre ad interessi e rivalutazione – è stato ridotto del 50%. È stato tuttavia affermato l’obbligo del distributore di rimborsare al danneggiato le spese legali dei quattro gradi di giudizio e confermato l’obbligo del produttore di rimborsare al distributore quanto da quest’ultimo pagato al danneggiato in forza della sentenza.

SCARICA LA SENTENZA

Corte d’Appello di Trento, 17 aprile 2020

Avv. Elena Bassan

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